La morte improvvisa nell’atleta

Italia in pole position nella prevenzione: 90% di riduzione negli atleti sottoposti a screening ma attenzione..l'ECG non deve far dimenticare l'importanza di una accurata anamnesi!!

La morte improvvisa nel giovane sportivo, apparentemente sano, rappresenta un evento drammatico che continua a generare grande sconcerto sia nell’opinione pubblica, sia nella classe medica. Da un lato, infatti, sembra impossibile che un giovane in grado di compiere grandi performance fisiche e che rappresenta il modello ideale della salute, possa essere vittima di un evento così grave. Dall’altro, nonostante lo sforzo di alcuni studiosi, ancora non è stato identificato con certezza il reale rischio di morte improvvisa presente negli atleti che praticano sport competitivo. I recenti episodi di morte improvvisa sul campo del calciatore Piermario Morosini e del pallavolista Vigor Bovolenta, nonché quella del nuotatore olimpionico Dale Oen, hanno rinnovato l’interesse dei media e della classe medica sul problema, suscitando una serie di opinioni, interventi e pareri, talora purtroppo anche di tipo propagandistico, sul come prevenire tali eventi drammatici. Grande interesse è stato posto sul ruolo dello screening medico-sportivo, valutazione mirata alla precoce identificazione di quelle patologie cardiovascolari responsabili della morte improvvisa sul campo e, allo stesso tempo, alla non idoneità degli atleti a rischio, con l’aspettativa che tale strategia possa impedire o, quantomeno, ridurre il fenomeno della morte improvvisa. Attualmente, nei paesi occidentali esiste una grande disomogeneità sul controllo medico degli atleti competitivi, con soltanto alcune nazioni, e tra queste l’Italia è all’avanguardia, che hanno programmato una visita di screening prima della partecipazione agli eventi atletici ufficiali. Poco è conosciuto circa il rischio di morte improvvisa connesso con l’attività fisica in giovani atleti. Corrado ed altri hanno valutato l’incidenza della morte improvvisa della popolazione giovanile atletica e non atletica della regione Veneto ed hanno indicato che l’attività competitiva aumenta di 2.5 volte il rischio di morte improvvisa. ECGIn questo studio, le cause più frequenti di mortalità erano rappresentate da patologie cardiovascolari silenziose, a decorso subclinico, come la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro e le anomalie congenite delle coronarie. Di conseguenza, l’attività sportiva non era “per sé” una causa della mortalità aumentata: piuttosto, ha agito come “trigger” per l’induzione di aritmie letali su un substrato miocardico preesistente. La valutazione dell’impatto epidemiologico con cui la morte improvvisa si presenta in giovani atleti durante gli sport competitivi organizzati è impedita dalla natura retrospettiva della maggior parte delle analisi. Gli studi meno recenti, infatti, hanno probabilmente sottovalutato il fenomeno perché si sono basati sui rapporti delle diverse scuole ed istituzioni. Per esempio, nel Minnesota (USA), la percentuale di mortalità è stata molto bassa (0.5 per 100.000/anno di atleti delle scuole superiori). Lo studio popolazionale in precedenza citato effettuato nella regione Veneto ha, più correttamente, segnalato un’incidenza di morte improvvisa di 2.3 per 100.000 atleti/anno (2.62 nei maschi e 1.07 nelle femmine). La morte improvvisa da sport mostra una predilezione per il sesso maschile, fino ad un rapporto 10:1. Tale differenza è stata collegata con il più alto tasso di partecipazione dell’atleta maschio agli sport competitivi, così come al carico di allenamento maggiore. Più probabilmente, essa è da ascrivere alla prevalente espressione fenotipica di malattie cardiache a rischio di arresto cardiaco aritmico, quali le cardiomiopatie, le anomalie congenite delle coronarie e le malattie dei canali ionici o canalopatie (sindrome del QT lungo, di Brugada, tachicardia ventricolare catecolaminergica). Negli atleti con età superiore ai 35 anni, la cardiopatia ischemica è la causa di gran lunga più comune di mortalità da sport. Negli USA ed in molti paesi europei, lo screening medico per l’attività sportiva è stato tradizionalmente realizzato solo con l’anamnesi familiare e personale e con l’esame fisico, senza il ricorso all’ECG. Questo metodo di screening è stato suggerito partendo dal presupposto che l’ECG non era redditizio in termini di costi/benefici su grandi popolazioni per la sua relativa bassa specificità. Una tale strategia, tuttavia, ha dimostrato una limitata capacità a rilevare le anomalie cardiovascolari potenzialmente mortali. Infatti, un’analisi retrospettiva statunitense, su atleti dei College deceduti improvvisamente, ha indicato che il sospetto per la presenza di una cardiopatia, utilizzando la storia clinica e l’esame fisico, è stato documentato soltanto nel 3% degli atleti esaminati e meno dell’1% ha ricevuto una diagnosi esatta. L’aggiunta dell’ECG ha il potenziale di aumentare enormemente la sensibilità dello screening, arrivando a rilevare, per esempio, fino al 95% di anomalie ECG nei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica. Da oltre 25 anni, l’Italia attua una selezione sistematica dei soggetti praticanti attività sportiva competitiva basata principalmente sull’ECG a riposo e dopo step-test, oltre che sulla storia clinica e l’esame fisico, in base alla legge sulla tutela sanitaria delle attività sportive del 1982. Tale screening viene applicato su una popolazione di circa 6 milioni di persone che rappresenta il 10% della popolazione italiana. La nota analisi epidemiologica effettuata da Corrado nel centro di Padova, Immagineche ha valutato l’impatto della legge sull’idoneità sportiva sulla mortalità da sport, ha evidenziato che -in circa vent’anni (1979-2004)- la mortalità si è ridotta del 90% negli atleti sottoposti a screening, mentre è rimasta pressoché immutata nei sedentari non screenati. Tale riduzione è espressione dell’affinamento diagnostico messo in pratica dai Medici dello Sport e dai Cardiologi nello svelare le cardiopatie aritmogene, in primo luogo la cardiomiopatia ipertrofica e l’aritmogena del ventricolo destro. L’importanza dell’ECG non deve far dimenticare, però, il peso che ha l’anamnesi sia familiare che personale: infatti, la maggior parte delle cardiopatie a rischio di morte improvvisa da sport è geneticamente determinata e sintomi quali sincope e/o pre-sincope da sforzo o cardiopalmo o dispnea da sforzo devono richiedere obbligatoriamente un approfondimento diagnostico accurato. I recenti e drammatici casi di morte improvvisa da sport ci insegnano, tuttavia, che non può esistere uno screening in grado di salvare tutti gli atleti a rischio di arresto cardiaco: alcune condizioni, come la cardiopatia ischemica e le anomalie congenite delle coronarie, possono non avere alterazioni sull’ECG sia di base che da sforzo. Oppure, un arresto cardiaco dovuto a commotio cordis, cioè ad un violento trauma toracico, non può essere prevenuto da uno screening, benché approfondito. Non sempre gli atleti, inoltre, riferiscono con precisione i sintomi avuti o, addirittura, li sottacciono del tutto. Questo giustifica gli sforzi per implementare i programmi di rianimazione cardiopolmonare (CPR) e di defibrillazione precoce sul campo di gara (prevenzione secondaria della morte improvvisa da sport), come già dimostrato con successo nell’esperienza statunitense di Drezner e collaboratori. Va sottolineata, infine, l’importanza dell’opera culturale e formativa svolta dalla Società Italiana di Cardiologia dello Sport e dalla Federazione Medico Sportiva Italiana che hanno rappresentato il “motore” del COCIS, il documento multi societario, espressione delle principali società cardiologiche italiane, che fissa le linee guida cardiologiche per il giudizio di idoneità allo sport agonistico, arrivato alla sua 4a Edizione ed a vent’anni di storia. Tale documento ha dato un valore squisitamente preventivo alla visita di idoneità agonistica che ha assunto, al di là degli aspetti sportivi, un effettivo valore sociale di tutela della salute e di programmazione economico-sanitaria, soprattutto dopo l’abolizione della visita di leva e la sostanziale scomparsa della medicina scolastica, accreditandosi come il primo e più precoce screening del nostro sistema sanitario nazionale.

Alessandro Biffi
Istituto di Medicina e Scienza dello Sport del CONI di Roma
Past-President Società Italiana di Cardiologia dello Sport

 
ALBERTO MARIA LANZONE
Da Cardiologo e Medico Sportivo mi complimento con il Collega Biffi per la perfetta esamina del problema, della chiarezza espositiva nonchè la sintetica ma completa valutazione dell'argomento. L'estero ci invidia la nostra normativa in materia di prevenzione medico-sportiva
inserito il: 17-10-2012 17:32
 
 
FABRIZIO ZANARDI
anch'io mi congratulo con BIffi ,comunque sia chiaro che non si muore di sport ma di malattie cardiache non correttamente diagnosticate

Dr Fabrizio Zanardi cardiologo
inserito il: 19-10-2012 07:09
 
 
DAVIDE GIROLA
Mi unisco ai complimenti per il Collega Biffi.
Peraltro di grande discussione questa estate, non dovremmo dimenticare le dimensioni del fenomeno fitness (migliaia di utenti di fitness club che accedono ad attività sportive anche di alto impatto e impegno cardiorespiratorio e che non vengono valutati se non, in rari casi, da medici di famiglia senza anamnesi elettrocardiogramma basale - D. Girola Cardiologo Milano/Como
inserito il: 19-10-2012 12:24
 
 
MASSIMO FRASCA
in cosa consiste la prevenzione "secondaria" della "morte improvvisa?". per il resto è tutto chiaro
inserito il: 19-10-2012 19:50
 
 
MARIA BANCI
Sicuramente una magistrale esposizione del problema ma da cardiologa e da ex nuotatrice agonista ritengo che andrebbe inserito routinariamente un esame ecocardiografico per tutti gli atleti che svolgono agonismo da effettuarsi presso centri e/o operatori esperti
inserito il: 19-10-2012 20:55
 
 
STEFANO RADICCHIA
Sottolineo 2 frasi che cito integralmente: "l'attività sportiva competitiva incrementa di 2,5 volte il rischio di morte improvvisa", e "l'attività sportiva agisce come trigger per l'induzione di aritmie letali su un substrato pre-esistente". La I ci dice che l'agonismo competitivo è un fattore di rischio tutt'altro che trascurabile, la II ci dice che la suddetta attività slantentizza una condizione predisponente, ciò che in medicina non definisce il fattore semplicemente "associato", bensì (anche dal punto di vista fisiopatologico) la "concausa scatenante". Tutto ciò non certo per indurre diffidenza sull'attività sportiva, ma per sottolineare il fatto che non si sottolinea abbastanza la nota curva di sopravvivenza "a campana" dell'attività sportiva. In un'epoca in cui vanno combattuti gli estremi, non si dice mai abbastanza sul fatto che la sedentarietà aunmenta la mortalità ma non si dice quasi niente sul fatto che anche l'attività sportiva competitiva (che per sua natura non può essere "moderata" - aggettivo che invariabilmente caratterizza tutte le raccomandazioni mediche inter-societarie) nonché tutti i fenomeni di "sport-addiction" connessi, sono una condizione di aumentato rischio (psico-)fisico.
inserito il: 20-10-2012 15:12
 
 
FRANCO ISOLA
è banale ma il problema fondamentale è riconoscere un substrato patologico. Sappiamo come certe patologia siano difficili da riconoscere anche con strumenti sofisticati(RMN-cuore, biopsia endomiocardica,ricerca genetica)per cui un attività fisica molto intensa può slatentizzare una patologia a grosso impatto prognostico. Comunque il fatto che in Italia le "maglie" della sanità sportiva sono più strette che altrove questo determina la diminuzione di eventi
inserito il: 20-10-2012 19:28
 
 
VITTORIO PINNA
D'accordo con Franco Isola.
inserito il: 21-10-2012 09:37
 
 
GIANLUIGI BIAVA
Coplimenti a Sandro Biffi per l'inquadramento del problema in maniera completa e con buon senso. Non sono d'accordo su un impiego a tappeto dell'ecocardiografia in tutte le valutazioni, ritengo che parte delle energie andrebbe impiegata in una valutazione del profilo psicologico degli atleti, dato il possibile ruolo trigger dello stress sulla comparsa di aritmie anche in soggetti apparentemente sani.
Gianluigi Biava cardiologo m. sportivo psicoterapeuta
inserito il: 21-10-2012 10:43
 
 
MARIA BANCI
La tecnica ecocardiografica andrebbe eseguita agli atlei agonisti con il mio gruppo la stiamo effettuando in collaborazione con i medici sportivi del territorio il dispendio di risorse e di energie è minimo ed in compenso abbiamo scoperto diversi csi interessanti non evidenziabili dal solo esame clinico ne ecg che sono stati prontamente fermati
inserito il: 21-10-2012 16:24
 
 
EMILIO BRIZIO
Cosi' come si è verificato con l'ECG il rapporto favorevole costo/benefici dell'Ecocardiogramma sarà evidente tra qualche anno.
inserito il: 21-10-2012 18:11
 
 
MARIO UGO MIRABELLA
complimenti per la disamina del problema.si potrebbe pensare di fare due programmi di screening (con tempi e modalita' dettate dagli specialisti cardiologi e medici dello sport )uno dal pediatra di base e uno dal medico di base in due eta' diverse per abbracciare la totalita' della popolazione e quindi servire da filtro per i cardiologi e i medici dello sport che faranno le valutazioni definitive.
inserito il: 04-11-2012 08:18
 
 
DOMENICO GALASSO
Se agli atleti si applica il metodo clinico e la attennta valutazione strumentale, gli eventi mortali possono essere prevenuti largamente.
inserito il: 04-11-2012 20:15
 
 
SERGIO SCALIA
Complimenti al Collega Biffi,ma ritengo che una visita medica con ecg la dovrebbero fare tutti i giovani atleti e non.Ritengo di importanza fondamentale l'anamnesi e la visita medica che devono essere accurate.L'ecocardiogramma,a mio parere, andrebbe fatto a tutti quegli atleti amatoriali"master" che praticano attività fisica intensa.
Sergio Scalia,medico dello sport.San Benedetto del Tronto.
inserito il: 09-11-2012 22:03