UN PICCOLO, GRANDE PROBLEMA… ...ANZI LETALE!!

All’AIAC 2010 è stato affrontato in profondità il tema della Fibrillazione Atriale.
È necessario sconfiggerla e, a tal proposito, è in arrivo dronedarone.

In Italia, la presenza di una forma di scompenso cardiaco su base diastolica e/o sistolica interessa presumibilmente milioni di persone. L’invecchiamento progressivo della popolazione, d’altra parte, farà verosimilmente raddoppiare tale prevalenza nel corso della prossima decade. Ciò rappresenta un enorme problema economico, sociale e sanitario. Circa un terzo dei pazienti caratterizzati da una frazione d’eiezione <40%, infatti, muore entro 5 anni dalla valutazione della risposta all’esercizio fisico. Successivamente ad un ricovero per insufficienza acuta del ventricolo sinistro, tuttavia, la mortalità sale a quasi il 40% dopo 12 mesi ed all’80% dopo 5 anni, particolarmente nel paziente anziano e/o con comorbilità. Per questi motivi, è sempre più essenziale prevenire l’insorgenza di scompenso cardiaco attraverso la corretta prevenzione delle condizioni che lo determinano, cioè i comuni fattori di rischio cardiovascolari. Quando questi fattori di rischio siano già presenti, invece, altrettanto fondamentale è trattarli correttamente, avvalendosi di farmaci che entrino nei meccanismi di malattia oltre a correggere il fenotipo. In questo contesto, gli antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA) hanno dimostrato di essere dei cardini su cui è possibile far ruotare le porte destinate a chiudere l’accesso al progredire della “sindrome scompenso cardiaco” dallo stadio pre-clinico a quello conclamato.

La capacità di ACE-inibitori e/o ARB di prevenire l’insorgenza di scompenso cardiaco e la loro utilità nel paziente affetto da scompenso cardiaco, più o meno conseguente a cardiopatia ischemica, appare sostanzialmente indubbia. Ancora non chiaro, invece, è il loro ruolo nel prevenire l’insorgenza di una temibile complicanza dello scompenso cardiaco, la fibrillazione atriale. Tale condizione, infatti, è di sempre più comune osservazione tanto nel paziente giovane e di mezza età, spesso in forma di fibrillazione atriale cosiddetta “a cuore sano”, quanto in quello più anziano e/o in presenza di coesistente patologia cardiaca più o meno sintomatica.

Erroneamente considerata una aritmia “minore”, la fibrillazione atriale ha invece una sua valenza clinica fondamentale. Infatti, a causa dell’elevata prevalenza della fibrillazione atriale nella popolazione ultrasessantenne, del deterioramento della funzione cardiaca che comunque essa implica e dello stato trombofilico che si realizza acutamente all’interno della camera atriale sinistra nel paziente fibrillante, quest’ultimo ha una maggiore probabilità di morire per scompenso cardiaco e/o ictus cerebri rispetto al non fibrillante. Per questo motivo, particolare interesse hanno suscitato alcune recenti meta-analisi, che hanno messo in evidenza la capacità di ACE-inibitori ed ARB di ridurre le recidive di fibrillazione atriale e la “new onset atrial fibrillation” in varie tipologie di pazienti: non solo affetti da scompenso cardiaco, bensì anche da cardiopatia ischemica ed ipertensione arteriosa (Figura 1).Figura 1 Alcuni di questi studi, molto pochi per la verità, hanno avuto come outcome primario proprio la riduzione delle recidive di fibrillazione atriale successive ad una cardioversione elettrica. Nello studio di Madrid et al, l’addizione di irbesartan all’amiodarone ha consentito di mantenere il 79% dei pazienti in ritmo sinusale al termine di un follow up pari a circa 1 anno rispetto al solo amiodarone che si è fermato al 55%. Ciò dimostra, con uno studio specificamente indirizzato a tale obiettivo, come effettivamente l’uso degli ARB possa implementare la terapia antiaritmica. Ciò nel tentativo di mantenere in ritmo sinusale tutti i pazienti reduci da una cardioversione spontanea, elettrica o farmacologica. Nel suddetto ambito, ovviamente, è evidente come la terapia ideale sia quella direttamente antiaritmica.

Quest’ultima, però, è purtroppo gravata da una serie consistente di eventi avversi, sia cardiovascolari che non, che ne limitano marcatamente la prescrizione. Per questo motivo, consistente interesse ha suscitato la recente approvazione da parte dell’autorità regolatoria europea (EMEA) di un nuovo antiaritmico, il dronedarone, dalle caratteristiche analoghe all’amiodarone, ma non iodinato e, quindi, scevro da qualunque evento avverso di tipo tiroideo e/o polmonare. Fino ad ora, è stato chiaramente dimostrato come il dronedarone sia in grado di ridurre in modo consistente le recidive di fibrillazione atriale e la frequenza cardiaca nel paziente cronicamente fibrillante, in assenza di significativi eventi avversi. Anche il modesto incremento della creatininemia, talora osservato nel paziente trattato con dronedarone, è stato poi correttamente interpretato come un effetto collaterale irrilevante, legato all’interferenza con l’escrezione della creatinina e non con la funzione renale. L’efficacia antiaritmica di dronedarone, dimostrata nello studio ATHENA (A Trial With Dronedarone to Prevent Hospitalization or Death in Patients With Atrial Fibrillation), è stata combinata ad una marcata riduzione degli eventi cardiovascolari conducenti ad ospedalizzazione oppure a decesso (Figura 2),Figura 2 con una evidente riduzione degli eventi cerebrovascolari che sembrerebbe essere una peculiarità protettiva di dronedarone, forse imputabile almeno in parte al suo effetto ipotensivo. La particolare efficacia di dronedarone, purtroppo mai testato in uno studio clinico controllato insieme ad un inibitore del sistema renina-angiotensina-aldosterone, fa di tale antiaritmico un possibile punto nodale nel trattamento della fibrillazione atriale e della prevenzione delle sue recidive. Ciò specie in considerazione della sua elevata tollerabilità, risultata nettamente superiore a quella di amiodarone nel contesto del recente studio DIONYSOS (Efficacy & Safety of Dronedarone Versus Amiodarone for the Maintenance of Sinus Rhythm in Patients With Atrial Fibrillation ) (Figura 3).Figura 3 In ragione di tale tollerabilità, pur combinata ad una minore efficacia rispetto ad amiodarone nel contesto dello stesso studio DIONYSOS, il trattamento con dronedarone si propone come un nuovo, possibile strumento, di cruciale rilevanza nel trattamento del paziente fibrillante in cui si debba ridurre la frequenza cardiaca oppure prevenire una recidiva dopo la cardioversione. Meritevole senz’altro delle dovute valutazioni post-marketing poi, appare essere anche la consistente riduzione degli ictus cerebrali osservata nello studio ATHENA che, se confermata, ha un potenziale clinico tanto ovvio quanto assolutamente rilevante.

Claudio Ferri
U.O.C. di Medicina Interna 1
Ospedale San Salvatore
Università dell’Aquila