Ottime promesse da Chicago sui nuovi farmaci antitrombotici, anti ischemici e per la colesterolemia HDL ma anche qualche delusione su terapie consolidate.
Quest’anno a Chicago, al meeting annuale dell’American Heart Association, si sono incontrati poco meno di 25.000 Cardiologi provenienti da tutto il mondo (circa la metà non americani) per confrontarsi sui risultati offerti dalla ricerca scientifica, da quella di base a quella clinica riguardanti svariati aspetti delle malattie cardiovascolari. Nei cinque giorni del congresso si sono succeduti nelle presentazioni esperti di fama mondiale che hanno portato dati rilevanti, alcuni dei quali hanno destato particolare scalpore. Di grande rilievo è stata la relazione del dott. C.P. Cannon, del Brigham and Women’s Hospital di Boston, che ha presentato lo studio DEFINE (Determining the EFicacy and Tolerability of CETP INihibition with AnacEtrapib). Il trial, che ha arruolato 1.623 pazienti in 153 centri di 20 paesi, ha dimostrato che la terapia con anacetrapib (100 mg /die per 18 mesi) riduce significativamente il colesterolo LDL (-40%: da un valore medio di 81 mg/dl a un valore di 49 mg/dL) e raddoppia i livelli di colesterolo HDL (da 40 mg/dL a 101 mg/dL) già a 24 settimane in pazienti con recente sindrome coronarica acuta o ad alto rischio di evento cardiovascolare già in terapia con statine o altri ipolipemizzanti e che erano a target per i livelli di C-LDL (Figura 1). Altro dato molto rilevante dello studio è l’aver dimostrato che l’anacetrapib a 76 settimane è sicuro: non modifica la pressione arteriosa, non altera gli elettroliti ematici (in particolare potassiemia) e i livelli di aldosteronemia e non presenta una significativa incidenza di eventi avversi rispetto al placebo, a differenza del suo precursore torcetrapib. Il dott. Cannon ha concluso il suo intervento affermando che “nessuna terapia aumenta il valore del C-HDL come è stato dimostrato dall'anacetrapib; questo farmaco fornisce un supporto davvero valido alla terapia con statine”. Altro trial con dati di particolare rilievo è stato il ROCKET-AF (Rivaroxaban Once-daily oral direct factor Xa inhibition Compared with vitamin K antagonism for prevention of stroke and Embolism Trial in Atrial Fibrillation). Lo studio ha coinvolto 14.264 pazienti affetti da fibrillazione atriale non valvolare, in più di 1.100 ospedali sparsi in 45 paesi nel mondo, tra cui 139 centri italiani. L’età media dei pazienti è stata 73 anni. Il 55% presentava un pregresso stroke o TIA. La randomizzazione ha diviso i soggetti in due gruppi di trattamento: rivaroxaban 20mg/die da una parte e warfarin dall’altra. Follow up medio a 19 mesi. I risultati dell’analisi intention to treat (che ha incluso tutti gli eventi dalla randomizzazione al completamento dello studio indipendentemente da quanto i pazienti avessero assunto correttamente i farmaci) ha mostrato la sostanziale uguaglianza di rivaroxaban e warfarin nella prevenzione di stroke e embolia (p<0,001 per non inferiorità). Dato interessante però è venuto dall’analisi effettuata solamente sui pazienti che assumevano correttamente i farmaci che ha messo in evidenza la superiorità del rivaroxaban sul warfarin (p=0,015) (Tabella 1). La morte per tutte le cause è stata leggermente inferiore nel gruppo rivaroxaban (4,52 per 100 pazienti/anno) rispetto a warfarin (4,91 per 100 pazienti/anno). I sanguinamenti maggiori sono stati uguali nei due gruppi di trattamento con 3,60 per 100 pazienti/anno nel gruppo rivaroxaban vs 3,45 per 100 pazienti/anno nel gruppo warfarin. Robert Califf, principal investigator dello studio ROCKET-AF, ha commentato al termine del suo intervento: "ora abbiamo un’alternativa a warfarin che si somministra una volta al giorno, che è altrettanto efficace e che non necessita né di monitoraggio dell’INR né delle attenzioni che si devono porre con warfarin nell’associazione con altri farmaci". Ha suscitato clamore tra i partecipanti la presentazione dei risultati dello studio P-OM3 (Efficacy and Safety of Prescription Omega-3 Acid Ethyl Esters) in cui è stato confrontato l’uso degli acidi grassi omega 3 (4 g/die) al placebo in pazienti con fibrillazione atriale (FA) parossistica. Nello studio sono stati randomizzati 542 pazienti con FA parassistica e 121 pazienti con FA persistente. Gli omega 3 o il placebo sono stati somministrati per 24 settimane. Al termine dello studio i ricercatori hanno evidenziato che i pazienti a cui era stato somministrato omega 3 non differivano rispetto al placebo nella ricomparsa dei sintomi; stesso identico risultato per i pazienti con FA persistente (nessuna differenza nella comparsa di sintomi tra i pazienti trattati e non). La giustificazione dell’“insuccesso” terapeutico da parte del dottor Peter R. Kowey del Main Line Health Hospital System di Philadelphia è stata ricondotta al fatto che la FA è spesso associata a una patologia cardiaca sottostante, lasciando una porta aperta a future sperimentazioni su pazienti con FA parossistica non riconducibile a malattia cardiovascolare. Interessanti dati sono stati riscontrati dai ricercatori brasiliani che hanno presentato lo studio ACT (Aceltylcysteine for the prevention of Contrast-Induced nephropaThy trial). Partendo dal riscontro, in un piccolo studio, di un evidente beneficio nell’utilizzo di acetilcisteina nel minimizzare il danno renale da mezzo di contrasto, i ricercatori coordinati dal dott. O. Berwanger del Research Institute dell’Ospedale do Caracao di San Paolo del Brasile, hanno arruolato 2.308 pazienti in 46 centri brasiliani randomizzati a ricevere acetilcisteina 1.200 mg 2 volte al di da 2 giorni prima della coronarografia a 2 giorni dopo, o placebo. A circa il 75% dei pazienti è stato somministrato mezzo di contrasto a bassa osmolarità in quanto ha un maggiore effetto protettivo renale. Il risultato è stato che i pazienti a cui è stata somministrata acetilcisteina hanno presentato la stessa incidenza di danno renale (13%), inteso come peggioramento di almeno il 25% del valore di creatininemia a 48 e 96 ore dalla procedura, la stessa riscontrata ai pazienti a cui è stato somministrato placebo (Tabella 2). Un po’ di delusione c’è stata dopo la presentazione dei dati del CLOSURE I Trial (A prospective, multicenter randomized controlled trial to Evaluate the safety and Efficacy of the STARflex septal closure system vs Best Medical Therapy in patients with stroke or TIA due to presumed paradoxical embolism trough a tatent foramen ovale) da parte del dott A.J. Furlan della Case Western Reserve University di Cleveland. Lo studio ha confrontato la chiusura transcatetere del forame ovale pervio (PFO) in associazione a terapia medica (clopidogrel 75 mg per 6 mesi e dopo aspirina 325 mg) rispetto alla sola terapia medica (aspirina 325 mg e/o wafarin) al fine di prevenire TIA e stroke in 909 pazienti con PFO associato a TIA o stroke. Il follow up dei pazienti è stato di 64 mesi. Al termine, lo studio ha evidenziato un lieve riduzione non statisticamente significativa dell’end point primario (percentuale di stroke e TIA, morte per tutte le cause a 30 giorni e morte per eventi neurologici) nei pazienti trattati con chiusura del PFO. Altro dato rilevato dai ricercatori è che non vi sono differenze statisticamente significative degli outcome nel gruppo trattato con terapia medica tra i pazienti che assumevano aspirina versus quelli trattati con warfarin. Tra i numerosissimi abstract presentati, visto il crescente interesse per la patologia di genere, è da segnalare uno studio pilota, condotto in doppio cieco dai ricercatori californiani della Cedars Sinai Medical Center di Los Angeles su pazienti di sesso femminile con disfunzione del microcircolo coronarico (stress test positivo e coronarie indenni). Le pazienti sono state trattate in crossover con ranolazina (farmaco recentemente introdotto in Italia con indicazione nell’angina pectoris) o placebo per 4 settimane e dopo 2 settimane di wash out l’inverso. Lo studio ha dimostrato una significativa riduzione dei sintomi e un miglioramento della riserva del flusso coronarico.
Nino Lo Pacio
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Faccio un'esempio: in un recente incontro presso la mia ASL a circa un anno dall'introduzione del Dabigatran nella pratica clinica in alternativa a warfarin già ci hanno intenzionalmente fatto vedere quanto costerà di più usare il primo rispetto al secondo non so in base a quali elementi visto che nel costo del Coumadin va considerato l'indotto(prelievo a volte anche a domicilio..)