Dalla diagnosi alle terapie farmacologiche e ai device: l’Heart Failure americano alterna novità e conferme nel campo dell’insufficienza cardiaca.
Dal 12 al 15 settembre scorsi si è tenuto al Convention Center di San Diego in California il 14° Congresso Annuale dell’Heart Failure Society of America (HFSA). Durante i quattro giorni del meeting molti esperti provenenti da tutto il mondo hanno presentato e discusso i più recenti progressi nel campo dello scompenso cardiaco, dai più importanti sviluppi nella scienza di base alle più recenti sperimentazioni cliniche riguardanti la cura dei pazienti. Stimolante relazione è stata quella di Mihai Gheorghiade, della Northwestern University di Chicago, riguardante un piccolo studio con solo 133 pazienti arruolati ma randomizzato, controllato, versus placebo, sul trattamento di pazienti con insufficienza cardiaca asintomatici o minimamente sintomatici che hanno assunto una terapia a base di acidi grassi omega-3 (PUFA), dimostrando che tale terapia migliora il rimodellamento ventricolare, valutato mediante tecnica ecocardiografica, potenziando sia la funzione sistolica che quella diastolica. Il dott. Gheorghiade ha concluso affermando di aver dimostrato un miglioramento minore ma statisticamente significativo della FE ventricolare sinistra. Tuttavia, tale miglioramento si è registrato in pazienti con terapia medica ottimizzata ed in pazienti che erano molto stabili (Tabella 1). Pur non essendo un end point dello studio, l’utilizzo dei PUFA omega 3 è stato associato anche ad una riduzione delle ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca. Dopo la presentazione di Gheorghiade, il discussant dottor Steven R Goldsmith della University of Minnesota di Minneapolis, ha sottolineato che gli studi precedenti con PUFA omega-3 avevano dimostrato un miglioramento della prognosi nella malattia coronarica e nell’insufficienza cardiaca ma nella maggior parte di questi studi, pur essendo il dato statisticamente significativo, è sempre apparso “abbastanza marginale”. Il dott. Goldsmith ha concluso annunciando che alcuni esperti hanno già proposto l’aggiunta degli omega-3 nelle linee guida americane della terapia dello scompenso cardiaco, pur valutando personalmente la cosa alquanto prematura. Dato l’effetto piuttosto modesto, un secondo trial randomizzato controllato, dopo lo studio italiano GISSI-HF, sarebbe necessario prima di valutare l’inserimento di routine dei PUFA omega-3 nelle linee guida dello scompenso. Tra le presentazioni più interessanti è da segnalare quella del dott. Michael G Felker, della Duke University di Durham in North Carolina, che ha messo in evidenza come sia più attendibile il valore del peptide natriuretico (BNP) alla dimissione nei pazienti ricoverati per insufficienza cardiaca più che la variazione dei livelli di BNP al fine di valutare la prognosi a lungo termine. Tale considerazione è il risultato della valutazione di più di 16.000 pazienti ricoverati in 259 ospedali coinvolti nell’OPTIMIZE-HF registry. Al fine di considerare il valore prognostico del BNP ad un anno nei pazienti ricoverati per insufficienza cardiaca, sono state attuate 3 diverse valutazioni in rapporto al “tempo” in cui è stato valutato il BNP: è stato considerato solo il valore al ricovero, solo il valore alla dimissione o il rapporto tra il valore alla dimissione e il valore al ricovero. Il dato finale dello studio mostra che non importa da dove si è partiti, o anche quanto si è cambiato, ma l’importante è dove si è finito (il dato alla dimissione) che fornisce le informazioni più rilevanti e correlate alla prognosi a lungo termine (Tabella 2). Bella la presentazione di William T Abramo, della Ohio State University, che ha esposto i risultati del trial PEERLESS-HF (Prospective Evaluation of Elastic Restraint to Lessen the Effects of Heart Failure study). Lo studio è stato interrotto a seguito di un’analisi provvisoria che ha mostrato che dopo 6 mesi di trattamento l’HeartNet device (Paracor Medical) non ha avuto significativi benefici su alcuni end point funzionali, in particolare VO2 di picco. L’HeartNet device è una “rete di metallo super elastica” che si avvolge al cuore in modo da fornirgli solo la giusta quantità di supporto al fine di tenere a freno il rimodellamento senza comprimerne l’emodinamica (Figura 1). Tale supporto, secondo i ricercatori, dovrebbe rallentare o arrestare la dilatazione ventricolare o, addirittura, prevenire alcuni ricoveri per scompenso cardiaco. Lo studio comunque, anche se interrotto, ha dimostrato che il dispositivo è sicuro (non ha aumentato in 12 mesi la mortalità per tutte le cause), può bloccare l’allargamento ventricolare, ridurre nettamente la massa ventricolare sinistra e soprattutto migliorare la classe NYHA, la capacità funzionale (valutata con il 6 minutes walking test) e la qualità della vita (valutata con il Kansas City Cardiomyopathy Questionnaire). In particolare è stato evidenziato come l’applicazione del device possa dare maggiori benefici a più del 50% dei pazienti sottoposti a terapia di resincronizzazione (CRT) ma non responder. Il dott. Abramo ha concluso la sua relazione affermando di aver cercato soprattutto i pazienti non-responder alla CRT e i dati preliminari dicono che l’HeartNet device permette una migliore risposta in alcuni sottogruppi di malati. Eric J Velazquez, del Duke Clinical Research Institute di Durham in North Carolina, discussant della presentazione di Abramo, ha commentato lo studio affermando che l’HeartNet è associato a modesti miglioramenti ma in assenza di eventi avversi maggiori e, quindi, può essere valutato nel contesto degli altri device utilizzati nei pazienti con insufficienza cardiaca. Tuttavia, “Se si guardano i risultati relativi alle cure standard di pazienti in classe NYHA 2-3”, ha affermato Velazquez, “penso che il dispositivo possa deludere per la mancanza di miglioramenti”. Concludendo, il dicussant ha sottolineato che il target del device su pazienti non responder alla CRT è un approccio molto razionale ma è importante che tali pazienti siano presi in considerazione solo dopo molto tempo dall’impianto del CRT, per consentire il massimo miglioramento che può essere ottenuto dalla resincronizzazione. Ha destato particolare interesse la presentazione del dottor Howard J Eisen (Drexel University, Philadelphia, PA) riguardante soggetti adulti con bassissimi livelli sierici di vitamina D nella coorte del NHANES 3 (Third National Health and Nutrition Examination Survey). I dati provenienti dalla survey hanno mostrato un più che triplicato rischio di morte per insufficienza cardiaca nel corso di otto anni di follow up rispetto a soggetti con livelli normali. La coorte consisteva in 13.131 soggetti di età >35 anni i cui i livelli di vitamina D sono stati valutati tra il 1988 e il 1994. Durante il follow up, lo 0,8% dei soggetti è morto per scompenso cardiaco. Di coloro che muoiono per insufficienza cardiaca e di coloro che muoiono per altre cause, il 37% e 26%, rispettivamente, erano carenti di vitamina D (25 [OH] D <20 ng/ml) alla valutazione basale (p <0,001). Nelle analisi aggiustate per età, sesso, razza, e comorbilità, l’hazard ratio per la mortalità in carenza di vitamina D (25 [OH] D ≤20 ng/mL) è stata 3,39 e di “insufficiente” vitamina-D (25 [OH] D compresa tra 20-29 ng/mL) è stata 2.02; entrambi significativi (p <0,001) rispetto a soggetti con normali livelli (25 [OH] D >30 ng/mL). Altro dato interessante che è emerso dalla survey è che la carenza di vitamina-D è stata molto più comune negli afro-americani (>60%) rispetto ai bianchi (20% circa).
Giuseppe Marazzi IRCCS San Raffaele Roma
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