ALTERNATIVE O INSIEME?

Nell’ischemia miocardica cronica, rivascolarizzazione e terapia medica ottimale vengono spesso visti come trattamenti in contrapposizione. I vantaggi su prognosi e sintomi quando agiscono insieme.

4-2010-10-1La prevalenza dell’angina stabile in Europa è di circa 20-40 casi ogni 1.000 abitanti, mentre fra i pazienti sottoposti alla PCI quelli con angina stabile rappresentano il 42%-53% del totale nei vari registri internazionali (Figura 1). In un registro canadese la mortalità/anno, in pazienti stabili (classe CCS ≥2) con coronaropatia dimostrata, supera il 3%. Naturalmente, la prognosi è fortemente condizionata dalle caratteristiche basali (età, comorbilità), dal quadro clinico (classe dell’angina, durata dei sintomi nel tempo), dall’estensione dell’ischemia ai test funzionali, dalla funzione ventricolare sn oltre che dalla sede, entità e dif- fusione della malattia coronarica. Quando si manifestano gli eventi più temibili (morte e infarto), nel- la maggior parte dei casi (> 60%) avvengono a ciel sereno, senza alcuna accentuazione della classe di angina. Nonostante la notevole dimensione del problema, nelle relative Linee Guida le raccomandazioni con i massimi livelli di evidenza (A) rappresentano solo il 6,4% del totale delle raccomandazioni, mentre ben il 55% sono il frutto del consenso degli esperti (livello C), a dimostrazione indiretta della mancanza di solide evidenze scientifiche in questo contesto clinico. 4-2010-10-2Nel 2007 venivano pubblicati due studi randomizzati, che davano il via ad una serie di confondenti controversie sull’opportunità o meno di rivascolarizzare questi pazienti. Nel COURAGE (Clinical Outcomes Utilizing Revascularization and Aggres- sive Drug Evaluation), nei 2.287 pazienti stabili, randomizzati alla PCI vs terapia medica ottimale (TMO), dopo un follow up mediano di 4,6 anni, la sopravvivenza senza infarto era simile fra i due gruppi. Nel MASS II (Medicine, Angioplasty or Surgery Study), fra i 611 pazienti stabili randomizzati alla TMO vs PCI vs by-pass aortocoronarico (CABG), dopo un follow up di 5 anni, l’end point primario (morte, infarto o ulteriore rivascolarizzazione per recidiva di angina) era significativamente minore nei soggetti sottoposti al CABG rispetto a quelli in terapia medica, beneficio non raggiunto in quelli trattati con PCI; in ogni caso, non si registravano differenze significative di mortalità fra i 3 gruppi. Sulla base di questi studi, una parte del mondo cardiologico estremizzava il concetto della scarsa utilità della rivascolarizzazione e, in particolare, della PCI in pazienti stabili, in quanto non in grado di migliorare la prognosi. Al fine di evitare le conclusioni affrettate non bisogna dimenticare alcuni aspetti di ordine generale: il valore di uno studio randomizzato è tanto maggiore quanto più la popolazione arruolata rappresenta quella del mondo reale e quanto maggiore è la somiglianza del trattamento attivo rispetto a quello disponibile al momento della pubblicazione del trial. Inoltre, va da se che il beneficio prognostico, in termini di sopravvivenza, può essere atteso soltanto se il profilo di rischio basale della popolazione arruolata è medio-alto. Negli studi citati, i pazienti arruolati rispetto a quelli “screenati”, rappresentano una estrema minoranza (7.6% nel COURAGE e 3% nel MASS II) rendendo di fatto le popolazioni arruolate nei due studi poco rappresentative del mondo reale. Gli stent a rilascio di farmaco sono stati utilizzati nel 3% dei pazienti nel COURAGE e 0% dei pazienti nel MASS II, rendendo di fatto obsoleto il trattamento effettuato nei due RCT. L’aspetto ancora più importante, cruciale per la interpretazione dei risultati, riguarda il profilo di rischio delle popolazioni arruolate e che possiamo indirettamente dedurre dalla mortalità annua dei pazienti assegnati alla TMO: 1.8%/anno nel COURAGE (0.9%/anno da causa cardiaca o non definita) e 3.2%/anno nel MASS II (2.5%/anno da causa cardiaca o non definita). Risulta evidente come la mortalità totale e quella cardiaca siano molto diverse fra i due studi, riflettendo di- versi profili di rischio basale. Questo dato è costantemente pre- sente negli studi randomizzati di confronto fra la terapia medica e la rivascolarizzazione nei pazienti stabili: quando il braccio attivo è la PCI, il profilo di rischio basale della popolazione arruolata è nettamente più basso (mortalità totale nel gruppo in TMO ≤2%/anno) rispetto agli studi nei quali è pre- sente un braccio di rivascolarizzazione chirurgica (mortalità totale nel gruppo in TMO >3%/ anno) (Figura 2). 4-2010-10-3La conseguenza di questo bias di selezione è che la rivascolarizzazione chirurgica si dimostra sistematicamente superiore alla TMO, risultato non dimostrabile per la PCI per l’insufficiente numerosità delle casistiche arruolate oppure per l’impossibilità reale di migliorare la prognosi in pazienti a basso rischio. Anche nello studio BARI 2D (The By-pass Angioplasty Revascularization Investigation 2 Diabetes trial), nel quale 763 pazienti diabetici stabili sono stati randomizzati al CABG vs TMO e 1.605 alla PCI vs TMO, la mortalità/anno nei gruppi in TMO era del 3.3% se confrontati con il CABG e del 2% se confrontati con la PCI; solo nei primi, la rivascolarizazione si era dimostrata superiore alla TMO nel migliorare la sopravvivenza senza infarto a 5 anni. Un elemento di novità in questo scenario deriva dalla recente pubblicazione del follow up a 10 anni del MASS II che, nonostante l’esiguità della casistica arruolata, dimostra una significativa riduzione della mortalità cardiaca nei soggetti rivascolarizzati vs TMO (20.7% gruppo TMO, 14.3% grup- po PCI e 10.8% gruppo CABG, p=0.019). Nella stessa direzione vanno i risultati di una metanalisi relativa ai 13.121 pazienti arruolati in 28 RCT di confronto fra TMO vs PCI o CABG e che conclude con un beneficio significativo, in termini di sopravvivenza a 3 anni, della rivascolarizzazione vs TMO (92.1% vs 90.2%). Un altro elemento di interesse deriva dalla metanalisi dei pazienti affetti da ischemia silente in 3 RCT (COURAGE, SWISS II E ACIP), presentata all’ACC del 2009 e non ancora pubblicata, nella quale si è osservata una riduzione significativa della mortalità in pazienti rivascolarizzati (RR 0.34, CI 95% 0.20-0.60) rispetto a quelli in TMO, nonostante un profilo di ri- schio basale relativamente basso. Per quanto riguarda l’impatto clinico, tutti gli studi concordano sulla maggiore efficacia della rivascolarizzazione vs TMO nel migliorare la classe dell’angina. Tale vantaggio si mantiene negli anni, nonostante un consistente crossover dei pazienti dalla TMO vs rivascolarizzazione (30% nel COURAGE, 40% nel BARI 2D, 40% nel MASS II a 10 anni). Purtroppo, anche fra i pazienti rivascolarizzati una quota rilevante continua ad essere affetta da sintomi anginosi, dato spesso dimenticato (Figura 3). Le più recenti Linee Guida dell’ESC (2010) raccomandano in Classe I la rivascolarizzazione di pazienti stabili ai fini di miglioramento prognostico in presenza di stenosi > 50% (ischemizzanti o con FFR < 0,80) localizzate sul tronco comu- ne/discendente anteriore prossimale oppure a carico di 2-3 vasi se FE ridotta oppure sull’ultimo vaso pervio oppure in presenza di ischemia coinvolgente >10% del ventricolo sn. Ai fini di miglioramento clinico, la rivascolarizzazione viene raccomandata in Classe I in tutti coloro che hanno almeno una stenosi coronarica >50% e continuano a presentare sintomi anginosi o equivalenti nonostante la terapia medica ottimale. In sintesi, la decisione se effettuare o meno la rivascolarizzazione in un paziente stabile deve basarsi su due elementi: il suo profilo di rischio e la sua risposta alla TMO. Se a rischio medio-alto (categoria scarsamente rappre- sentata nei RCT), la rivascolarizzazione va perseguita per migliorarne la prognosi, altrimenti servirà a migliorarne il quadro clini- co se refrattario alla TMO. In pazienti con basso profilo di rischio e buona risposta alla TMO, la rivascolarizzazione non aggiunge benefici, nè prognostici nè clinici. La scelta della modalità della rivascolarizzazione, chirurgica oppure percutanea, si dovrà basare su elementi di giudizio cli- nico e angiografico. In ogni caso, la TMO e la rivascolarizzazione, sia quelle di oggi che quelle di domani, non vanno viste come alternative terapeutiche ma come opportunità complementari con obiettivo comune di aumentare la durata e migliorare la qualità delle vita dei pazienti stabili. Un numero consistente di pazienti rivascolarizzati continua ad esse- re sintomatico, rendendo auspicabile progressi sia tecnologici che farmacologici nel migliorare i risultati della rivascolarizzazione stessa e il controllo dei sintomi nel tempo.

Zoran Olivari
Direttore SC Cardiologia Ospedale Cà Foncello, Treviso