Intervista parallela a Stefano Bianchi (Nefrologo, U.O.C Nefrologia – Ospedale San Donato, Arezzo) e Claudio Rapezzi (Cardiologo, S.S.D. di Cardiologia – Azienda Ospedaliera-Universitaria S.Orsola-Malpighi, Bologna) sull’utilizzo delle statine in pazienti nefropatici.
Quale effetto hanno le statine nei soggetti a rischio CV con malattia renale cronica (CKD)?
Bianchi. I pazienti con CKD non in terapia dialitica, popolazione caratterizzata dalla presenza di dislipidemia aterogena e da un altissimo rischio CV, quando trattati con statine beneficiano di una significativa riduzione degli eventi CV fatali e non. Questi risultati sono stati osservati con tutte le statine utilizzate nella pratica clinica e sembrano essere tanto più evidenti quanto più si somministrino statine ad alta efficacia.
Rapezzi. La presenza di insufficienza renale cronica lieve o moderata (valutata attraverso la stima del GFR con la formula del MDRD) non modifica i noti benefici del trattamento con statine sugli end point cardiovascolari, né sposta il rapporto rischio/beneficio del trattamento. Ciò emerge chiaramente sia dalla analisi dei sottogruppi dei vari trial clinici sulle varie statine sia, in particolare, dal sottostudio JUPITER dedicato ai soggetti con insufficienza renale moderata in trattamento con rosuvastatina. In questo studio l’entità del benefico è simile indipendentemente dal valore di GFR (eGFR inferiore o superiore a 60 ml/min/1.73 m2). Diversa è invece la situazione per i pazienti in emodialisi. Due studi dedicati a questa popolazione (4D e AURORA, rispettivamente con atorvastatina e rosuvastatina, non hanno documentato significativi benefici del trattamento statinico (in termini di riduzione di mortalità o eventi vascolari). Questi risultati non attenuano in alcun modo il giudizio estremamente positivo sull’efficacia preventiva delle statine nei pazienti a rischio. Occorre, infatti, considerare che entrambi gli studi risultano “underpowered”. Se da un lato, in entrambi i trial, le statine non mostrano alcun effetto sulla morte improvvisa e sul reinfarto, dall’altro la riduzione degli eventi coronarici (un end point secondario) è del tutto paragonabile (19% per 1mmol di riduzione del C-LDL) a quella degli studi sulle statine in soggetti senza IRC. Inoltre, va sottolineato il fatto che, in entrambi gli studi, le curve tendono a separarsi (a favore del trattamento statinico) solo tardivamente (dopo 3 anni), come se nel paziente dializzato (quindi con ampia e diffusa calcificazione vascolare) le statine agissero non tanto sulle lesioni preesistenti bensì sulla formazione di quelle nuove.
Qual’è a suo avviso il dato più importante di JUPITER nella malattia renale cronica (CKD)?
Bianchi. Nei pazienti con CKD analizzati nello studio JUPITER, rosuvastatina si dimostra efficace nel ridurre i valori del colesterolo LDL, ancor più di quanto non si osservi nella popolazione senza CKD (-52% vs -46% rispetto al valore basale, rispettivamente, p<0.001) ed evidenzia una identica attività antinfiammatoria (-37% in ambedue i gruppi vs il valore basale), inducendo una significativa riduzione di tutti gli end point CV previsti (Tabella 1). L’incidenza degli eventi CV previsti nell’end point primario è più elevata nei pazienti con CKD trattati con placebo, è significativamente minore nei pazienti senza CKD trattati con rosuvastatina mentre risulta sostanzialmente sovrapponibile nei pazienti con CKD trattati con rosuvastatina ed in quelli senza CKD trattati con placebo. In altre parole, il trattamento con rosuvastatina 20 mg/die sembra annullare, nei pazienti con CKD, l’“handicap” prognostico CV sfavorevole che caratterizza questa condizione clinica (Figura 1).
Rapezzi. Nei soggetti con “profilo JUPITER” (LDL <130 mg/dl, hs CRP >2 mg/l), la coesistenza di insufficienza renale moderata (GFR inferiore a 60 ml/min/1.73 m2, ma creatininemia <2mg/dl) si associa ad un profilo di rischio cardiovascolare decisamente più elevato (come peraltro avviene in tutti i soggetti con insufficienza renale indipendentemente dal profilo lipidico). Il trattamento con rosuvastatina 20 mg/die riduce questo rischio in maniera importante e statisticamente significativa; il rischio relativo dell’end point combinato (mortalità cardiovascolare, infarto miocardico, stroke, ospedalizzazione per angina instabile, rivascolarizzazione miocardica) è infatti ridotto del 45% e la mortalità globale del 44%. La curva attuariale dell’end point primario nei pazienti con IRC in trattamento con rosuvastatina diviene sovrapponibile a quella dei soggetti senza IRC in placebo (Figura 1).
Le statine sono ben tollerate a livello renale? Esistono differenze di safety renale tra statine?
Bianchi. Tutti gli studi che hanno valutato gli effetti della terapia con statine sugli eventi CV nei pazienti con CKD (negli stadi da 1 a 4, eGFR compreso fra 130 e 15 mL/min/1.73 m2) hanno evidenziato che la safety globale delle statine, inclusa quella relativa ad eventuali effetti negativi sul rene, è del tutto sovrapponibile a quella osservata nei pazienti con CKD trattati con placebo. I risultati dello studio JUPITER confermano l’eccellente profilo di safety delle statine nei pazienti nefropatici (Tabella 2).
Rapezzi. Le statine sono farmaci ben tollerati a livello renale. Nei grandi trial clinici prospettici non emergono differenze rilevanti, in termini di safety renale, fra le varie molecole testate.
Qual è il ruolo del dosaggio della statine nella determinazione degli effetti sul rene?
Bianchi. Contrariamente a quanto osservato per altri effetti collaterali negativi (muscolari ed epatici, ad esempio), non sembra che l’utilizzo di dosaggi più elevati delle statine aumenti il rischio di effetti negativi sul rene. In attesa di studi effettuati su popolazioni più ampie e più prolungati nel tempo, rimane valido il principio che si deve sempre utilizzare il dosaggio minimo efficace, privilegiando l’impiego di statine di ultima generazione, dotate di maggior efficacia clinica.
Rapezzi. Il dosaggio delle statine somministrate in terapia cronica non sembra influenzare la funzione renale (né in termini di riduzione né in termini di protezione) o, perlomeno, non vi sono dati a riguardo. Vi sono invece dati su statine e proteinuria tubulare. Proprio perché intrinsecamente legata al loro effetto farmacologico, cioè l’inibizione dell’enzima HMG-CoA riduttasi (a livello delle cellule tubulari), la proteinuria indotta dalle statine è dose dipendente. Ad esempio, per quanto riguarda la rosuvastatina, la percentuale di pazienti con proteinuria “2 +” (rilevata con dipstick urinario) è circa 0.7% per dosi giornaliere di 20 mg e circa 1.2% per dosi di 40 mg.
Nel corso del Congresso della European Renal Association si è parlato dello studio PLANET. Cosa è lo studio PLANET e quali potrebbero essere i possibili risvolti dello studio per i vostri pazienti?
Bianchi. Lo studio PLANET è uno studio randomizzato e controllato della durata di 1 anno, disegnato per valutare gli effetti sulla proteinuria (end point surrogato di progressione del danno renale) della terapia con due diverse statine (atorvastatina 80 mg/die e rosuvastatina 40 e 10 mg/die) in pazienti diabetici (PLANET I) e non diabetici (PLANET II) con nefropatia proteinurica progressiva ed ipercolesterolemia. I risultati disponibili (lo studio non è stato ancora pubblicato), evidenziano un significativo effetto antiproteinurico di atorvastatina 80 mg/die mentre nessuna riduzione della proteinuria si osserva con rosuvastatina ai due dosaggi utilizzati, sia nei pazienti diabetici che nei non diabetici.
Rapezzi. Si tratta di due studi prospettici, multicentrici, di fase IIb, (PLANET I e II, rispettivamente rivolti a pazienti con e senza diabete mellito tipo 2) disegnati per valutare gli effetti della rosuvastatina sull’escrezione urinaria di proteine in pazienti dislipidemici con proteinuria preesistente al trattamento. In particolare sono stati valutati gli effetti di due dosaggi di rosuvastatina (10 mg e 40 mg) e di 80 mg di atorvastatina somministrati per 1 anno.
Quali potrebbero essere i pregi ed i limiti dello studio PLANET?
Bianchi. Il limite principale dello studio PLANET è rappresentato dal fatto che non prevede alcun hard end-point primario, CV o renale, ma solo un end point surrogato, sebbene provvisto di potere predittivo sulla progressione della CKD, quale è la proteinuria. Il suo pregio principale è di essere un modello per studi futuri che possano valutare l’effetto delle statine sulla progressione del danno renale, prevedendo end point clinicamente rilevanti (raddoppio della creatinina serica o raggiungimento della CKD terminale che richieda l’inizio della terapia dialitica sostitutiva).
Rapezzi. In estrema sintesi, i soggetti in trattamento con rosuvastatina non hanno mostrato variazioni significative della escrezione urinaria di proteine. La proteinuria si è addirittura ridotta nei pazienti trattati con 80 mg/die di atorvastatina. Dagli studi PLANET, nel complesso relativi a meno di 600 casi, non possono scaturire implicazioni decisionali sulla scelta fra le differenti statine. Nel complesso, però, entrambi i PLANET smentiscono i timori di un effetto di aumento della proteinuria in corso di trattamento cronico con statine.
Quanto pesa l’effetto renale nella scelta della statina? In quali pazienti risulta determinante ed in quali no?
Bianchi. Non molto, nella pratica clinica. Come abbiamo già detto, nei pazienti con funzione renale poco o moderatamente compromessa tutte le statine hanno dimostrato un eccellente profilo di safety renale. In quelli con nefropatia progressiva proteinurica e compromissione più severa della funzione renale, l’evidenza clinica a disposizione è modesta e prima di trarre conclusioni definitive dobbiamo attendere la pubblicazione di studi già terminati (PLANET e SHARP), dei quali non conosciamo ancora per esteso i risultati.
Rapezzi. Le statine dovrebbero essere somministrate ai pazienti a rischio cardiovascolare, indipendentemente dalla coesistenza di IRC, allo scopo di ridurre gli eventi cardiovascolari nel follow up. Non vi sono invece dati che supportino l’uso delle statine esclusivamente finalizzato a rallentare la progressione della disfunzione renale.
Possiamo dire che ci siano statine dannose o non ben tollerate a livello renale?
Bianchi. No, le statine non sono assolutamente farmaci nefrotossici. Al contrario, si può senza dubbio concludere che la terapia con statine nei pazienti con CKD costituisce, per efficacia e sicurezza, un caposaldo della terapia multifattoriale che deve essere messa in atto in questi pazienti per migliorarne la prognosi CV e, probabilmente, renale.
Rapezzi. Decisamente NO.
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