Dopo tanti anni, gli elettrocateteri di PM/ICD possono mostrare segni di cedimento... Principali problemi ed esperienze nell’estrazionee sostituzione degli elettrocateteri.
Dal 1980 a oggi, si è visto crescere in maniera esponenziale il numero degli interventi di impianto di dispositivi (pacemaker e defibrillatori) considerati indispensabili nel trattamento delle patologie del ritmo cardiaco di tipo sia ipocinetico sia ipercinetico. Notevoli progressi tecnologici sono stati compiuti con la presenza sul mercato di vari modelli con differente modalità di stimolazione: pacemaker in funzione VVIR monocamerali con un solo elettrocatetere da stimolazione posizionato in apice del ventricolo destro; pacemaker in funzione DDDR bicamerale con due elettrocateteri da stimolazione posizionati in atrio destro e apice del ventricolo destro; ICD con elettrocatetere da stimolazione e defibrillazione; pacemaker/ICD biventricolari resincronizzanti, molto utilizzati in questi ultimi anni per la terapia dello scompenso cardiaco, con elettrocateteri da stimolazione in atrio destro, ventricolo destro e seno coronarico; pacemaker in stimolazione bifocale o polifocale con l’utilizzo di siti d’impianto alternativi, tuttora al vaglio scientifico. Proporzionalmente al numero di dispositivi impiantati, si evidenzia un incremento del numero di elettrocateteri da stimolazione talora molto diversi tra di loro per caratteristiche tecniche, materiali, resistenza alla trazione, rivestimento, modalità di fissazione, diametro e funzione. Con il notevole incremento del numero e della qualità delle procedure di impianto di pacemaker/ICD, ci si è posti il problema delle possibili complicanze precoci e tardive di tipo infettivo o da malfunzionamento in cui la rimozione di tutto o parte del sistema di stimolazione risulta essere l’unica terapia utile nel garantire una completa guarigione. Diversi autori concordano nel ritenere che il 2-5% circa degli impianti di pacemaker possa presentare, a distanza di tempo, problemi di tipo infettivo o da malfunzionamento. La presenza di elettrocateteri posizionati attraverso il sistema venoso nelle camere cardiache ha evidenziato la problematica della loro eventuale rimozione, dopo diversi anni di permanenza in sede, per la presenza di aderenze fibrotiche o fibrocalcifiche, talora molto estese, lungo tutto il decorso venoso e nel muscolo cardiaco. Tali aderenze spesso si presentano in maniera così estesa da ostruire completamente il lume vascolare, favorendo il manifestarsi di patologie, come la sindrome ostruttiva della vena succlavia e della vena cava, od ostruendo tutte le vie di accesso per il posizionamento di altri eventuali elettrocateteri da stimolazione. La sola rimozione della cassa del pacemaker e/o la revisione chirurgica della tasca, lasciando in situ gli elettrocateteri, non porta alla risoluzione del problema infettivo, ma a un ritardo nei tempi di guarigione, favorendo l’aggravarsi della malattia. La presenza di più elettrocateteri nel letto vascolare favorisce una maggiore incidenza di eventi trombotici e/o l’eventuale impianto di microrganismi patogeni. Un iniziale processo infettivo locale della tasca del pacemaker o la presenza di vegetazioni batteriche lungo il decorso possono evolvere, in un tempo più o meno lungo, verso l’endocardite infettiva (EI), grave complicanza che, se non risolta in tempi brevi, presenta indici di mortalità talora superiori al 50%. Prima dell’avvento delle attuali tecniche di rimozione transvenosa, l’unico rimedio valido era l’intervento cardiochirurgico con modalità invasive (sternotomia e toracotomia) eseguite in anestesia generale. Questa tecnica consentiva di ottenere modesti risultati, ma con lunghi tempi di degenza e guarigione. Uno dei fattori limitanti per il cardiochirurgo era il non facile approccio ai grossi vasi superiori (vena succlavia, vena cava). Le successive tecniche di rimozione mediante trazione manuale aggressiva, con bande elastiche o pesi presentavano più complicanze (infezioni o traumi gravi, fratture o frammentazioni degli elettrocateteri) che risultati positivi; pertanto, sono state sconsigliate e generalmente abbandonate. Dal 1990 a oggi, progressivamente e costantemente, si sono sviluppate varie tecniche di rimozione degli elettrocateteri che utilizzano esclusivamente la via transvenosa attraverso le vene succlavia sinistra e destra, giugulare destra e femorale destra. Per la rimozione degli elettrocateteri vengono utilizzate le seguenti tecniche: Laser, Radifrequenza e manuale in base alla personale scelta dell’operatore. La presenza del Cardiochirurgo, del Chirurgo toracico o chirurgia idonea, come consiglia il protocollo nazionale, resta comunque di notevole importanza per tutte quelle condizioni che impediscono la rimozione transvenosa o per le eventuali complicanze (tamponamento cardiaco, rottura cardiaca, lesione dei grossi vasi), sempre possibili e spesso non facilmente preventivabili. La tecnica di rimozione transvenosa, pur essendo una tecnica complessa, emodinamicamente cruenta e talora non esente da complicanze gravi o mortali, va attualmente considerata la metodica principe per la rimozione degli elettrocateteri infetti o danneggiati e per la risoluzione di sepsi gravi o malfunzionamenti a essi associati. È ampiamente dimostrato che la non rimozione spesso espone il paziente a gravi problemi setticemici, con lunghe e inutili terapie antibiotiche, e che le stesse terapie, una volta rimosso il corpo estraneo infetto, presentano maggiore efficacia e possibilità di successo. Come per tutte le tecniche cardiologiche invasive, si consiglia che venga praticata presso centri altamente specializzati e dedicati, tenendo conto delle linee guida e dei protocolli nazionali (AIAC 2004).
Giuseppe M. Calvagna Divisione di Cardiologia Ospedale San Vincenzo di Taormina-Messina
|