Un concentrato di CARDIOLOGIA

3 giorni di SIC pieni e densi di aggiornamento alla luce delle più importanti novità scientifiche nazionali ed internazionali.

1-2011-copertinaC’era molto timore sul fatto che 3 giorni potessero sembrare pochi per contenere tutto il programma e le iniziative “made in SIC” ma, almeno dal nostro punto di vista e raccogliendo anche il polso dei partecipanti, la short version, dettata soprattutto dalla congiuntura economica sfavorevole, ha colto nel segno e, forse, ha rafforzato il concetto che il cambiamento fa paura ma obbliga a pensare di più e costringe a fare scelte razionali, logiche e sostenibili che, come in questo caso, vengono premiate. Chissà, magari è solo l’inizio di un profondo cambiamento nel modo di fare aggiornamento scientifico che, a nostro avviso, troverà sempre più spazio in futuro. Sicuramente le scelte forti ed i cambiamenti radicali non riguardano solo noi in Italia e, tanto per entrare nel merito della kermesse cardiologica romana da un punto di vista scientifico, negli Stati Uniti non se la passano certo meglio. Alla SIC, infatti, ha partecipato addirittura Ralph Sacco, Presidente dell’American Heart Association, che è intervenuto con una Lettura Magistrale dal titolo “The new AHA 2020 strategic Plan to Improve Cardiovascular Health” che avrebbe meritato una sala più importante e una platea molto più gremita. Durante la Lettura si sono rivisitati i punti cardine del programma dell’AHA con gli obbiettivi ottenuti al 2010, certamente positivi, riguardo al calo percentuale dell’incidenza di stroke e cardiopatia ischemica, ma riportando risultati altalenanti in termini di abbattimento dei fattori di rischio. Ottima la riduzione dell’abitudine tabagica (-19.8%), quasi neutra la promozione dell’attività fisica (2.5%) con, tuttavia, un aumento dell’obesità (1.9%) e del diabete (1.8%). Gli obbiettivi principali per il 2020 sono l’abbattimento del 20% della cardiopatia ischemica e dello stroke, attraverso la promozione dei cosiddetti Life’s simple 7: non fumare, un BMI<25, attività fisica di 150 minuti/settimana con sforzo moderato o 75 min se vigoroso, dieta equilibrata, colesterolo totale <200mg/dl, pressione arteriosa sotto i 120/80 mmHg e glicemia <100mg/dl. Nota dolente? In una indagine presentata su un campione ampio della popolazione americana, solo lo 0.5% della popolazione è a target su tutti gli aspetti. Hanno molto da lavorare!! Tuttavia, anche in Italia i problemi non mancano. Enzo Manzato, dell’Università di Padova, ha mostrato statistiche desolanti sull’impiego di statine negli anziani. Sono dati presentati recentemente anche al congresso nazionale di Geriatria e Gerontologia e dicono che l’utilizzo di statine crolla vertiginosamente mano a mano che si progredisce nell’età. Dopo IMA, in soggetti con più di 65 anni, l’unica terapia che migliora veramente la sopravvivenza è quella a base di statine. Negli ultraottantenni con IMA, la statina diminuisce la mortalità CV e totale e non alza i tumori. Nel PROVE IT i soggetti con oltre 70 anni che raggiungevano, dopo 30 giorni di terapia a base di statine, i 70 mg/dl di LDL avevano una mortalità ridotta rispetto agli stessi pari età ma con LDL non controllate. Il controllo del C-LDL, quindi, è fondamentale negli anziani con pregresso infarto ed è necessario cambiare lo stato di cose che vedono oggi l’anziano come un target da non trattare o da non trattare in modo consistente. In realtà, oggi, per venire incontro alle esigenze di forte controllo del colesterolo e basso rischio connesso con gli alti dosaggi di statine la soluzione c’è e si chiama simvastatina+ezetimibe. Grazie al doppio meccanismo d’azione dei due farmaci che compongono l’associazione e la peculiarità di ezetimibe, questa combinazione può ottenere una riduzione molto importante delle LDL senza alzare il dosaggio della statina. Sulla sicurezza possiamo dire che il confronto tra l’associazione ed il placebo non mostra differenze, soprattutto su miopatie, neoplasie, elevazione di CK. Il tema della inadeguata terapia preventiva post IMA non riguarda solo gli anziani. Durante il 71° Congresso SIC si è affrontato anche il problema dell’adesione del paziente infartuato alla terapia prescritta ed, in particolare, si è analizzata l’aderenza dei pazienti al trattamento con statine. Sono stati presentati i dati dello studio PREMIER (Prospective Registry Evaluating Myocardial Infarction: Events and Recovery) che hanno evidenziato che, a 3 mesi da una sindrome coronarica acuta, c’è una sospensione o riduzione del trattamento con statine in una percentuale che varia dal 30 al 60%. Le cause di tale comportamento sono da attribuire in un 44% dei casi al Medico di Medicina Generale che ritiene troppo alto il dosaggio di statina prescritto e, nel 56% dei casi, all’insorgenza di effetti collaterali quali, ad esempio, mialgie. Questa riduzione dell’aderenza al trattamento con statina è un grosso problema perché ha un forte impatto negativo sulla prognosi del paziente. Interrompere la terapia con statina porta ad un aumento di tre volte del rischio di avere un secondo evento; prima viene sospeso il trattamento e peggio è per il paziente. Bisogna, allora, trovare un compromesso per avere un basso livello di colesterolo LDL per prevenire il rischio di una recidiva, e l’avere il minor numero di effetti collaterali possibili. La soluzione potrebbe essere, come ha suggerito Paolo Golino durante il simposio, usare statine di ultima generazione che hanno un maggiore effetto a dosaggi inferiori in modo da avere il massimo risultato con il minimo rischio. In ogni caso, è stata ribadita la fondamentale importanza delle statine nei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione coronarica: prima vengono iniziate meglio miglioriamo la prognosi del paziente. È stato più volte sottolineato, infatti, che non è tanto importante il grado di stenosi della placca, ma il grado di complicazione della placca aterosclerotica; sulla placca agiscono, infatti, fattori protettivi e fattori negativi che portano ad un’instabilità della stessa. Un intervento di rivascolarizzazione porta certamente ad un effetto positivo ma anche ad un traumatismo a livello locale a cui segue una certa risposta infiammatoria evidenziata da un aumento di proteina C reattiva (CRP). Tanto maggiore è la risposta infiammatoria, maggiore è il rischio di complicanze; il pre-trattamento con statine va proprio a ridurre i livelli di CRP e, quindi, a ridurre il rischio di complicanze. Questo è stato confermato dallo studio LIPS (Lescol Intervention Prevention Study), in cui si è visto che alte dosi di fluvastatina somministrate entro tre settimane da un intervento di rivascolarizzazione, riducevano il rischio di morte in pazienti con sindrome coronarica acuta. Lo studio PROVE IT-TIMI 22 (Pravastatin or Atorvastatin Evaluation and Infection Therapy– Thrombolysis in Myocardial Infarction 22) ha paragonato pravastatina 40 mg e atorvastatina 80 mg dimostrando la superiorità di atorvastatina nel prevenire morte o reinfarto o necessità di rivascolarizzazione. Tutti questi studi hanno dimostrato che un pre-trattamento con alte dosi di statine riduce le complicanze peri-procedurali nei pazienti infartuati e che l’ideale sarebbe iniziare la statina 24 ore prima dell’intervento. Oltre a ridurre i livelli di CRP, le statine portano anche ad una riduzione del colesterolo LDL (LDL-C) e questo beneficio è indipendente dai valori basali di LDL-C. Concludendo, quindi, davanti ad un evento cardiovascolare, è fondamentale trattare i pazienti con statine indipendentemente dai valori basali di LDL-C; inoltre, il trattamento con statine andrebbe iniziato il più precocemente possibile. Durante il Congresso SIC si è parlato molto anche di ipertensione e delle armi a disposizione dei Medici per combatterla. È oramai noto che la prevalenza dell’ipertensione aumenta con l’età e che, con il passare degli anni, un buon controllo pressorio è sempre più difficile da ottenere. Diversi studi, infatti, hanno evidenziato che nei pazienti sessantenni si riesce ad ottenere un discreto controllo pressorio nel 53% dei casi, nei settantenni nel 37% dei casi e negli ottantenni solo nel 30% dei casi. Durante il simposio dal titolo “Attualità in tema di ipertensione arteriosa”, Massimo Volpe ha presentato i dati dello studio ESPORT (Efficacy and Safety in Elderly Patients with Olmesartan versus Ramipril Treatment) in cui sono stati arruolati 1.102 ipertesi di età compresa tra 65 e 89 anni e sono stati randomizzati ad un trattamento di 12 settimane con olmesartan 10 mg o ramipril 2.5 mg una volta al giorno. Dopo le prime 2 e 6 settimane i dosaggi potevano essere aumentati fino a 40 mg per olmesartan e a 10 mg per ramipril nei pazienti non ben controllati per ottenere valori pressori <140/90 mmHg nei non diabetici e <130/80 mmHg nei diabetici. I risultati hanno dimostrato una superiorità di olmesartan rispetto a ramipril nel migliorare i valori di pressione sistolica e diastolica; il 53% dei pazienti in terapia con olmesartan e il 46% dei pazienti in terapia con ramipril ha raggiunto il target terapeutico; entrambi i farmaci sono risultati ben tollerati. Olmesartan ha anche dimostrato di rispettare il normale ritmo circadiano, il che consente di poterlo somministrare anche all’anziano con una buona tollerabilità. Sempre riguardo olmesartan, durante il simposio “Attualità in tema di ipertensione arteriosa”, è stato evidenziato come la microalbuminuria sia il primo segno di danno glomerulare e di danno renale, oltre ad essere un fattore di rischio cardiovascolare indipendente e un predittore di stroke e morti coronariche. La microalbuminuria si può prevenire e, a questo proposito, sono stati presentati i dati dello studio ROADMAP (The Randomized Olmesartan and Diabetes Microalbuminuria Prevention Study) dove sono stati arruolati 4.447 pazienti diabetici con un valore di emoglobina glicata superiore a 6.5%, senza evidenza di nefropatia e con almeno un fattore di rischio addizionale per malattie cardiovascolari. I pazienti hanno ricevuto 40 mg al giorno di olmesartan o placebo e potevano ricevere una concomitante terapia antiipertensiva, ad eccezione di ACE inibitori o sartani. Lo scopo di questo studio è stato quello di valutare se olmesartan può ritardare l’insorgenza di microalbuminuria. Dopo 48 mesi di trattamento l’80% dei pazienti in terapia con olmesartan ha raggiunto il target pressorio e si è avuta una riduzione del 25% dell’insorgenza di microalbuminuria. Olmesartan, quindi, ha dimostrato di essere efficace nell’aumentare il tempo di insorgenza di microalbuminuria e per lo più questo effetto è risultato essere pressione indipendente. Bisogna, però, dire che si è osservato un maggior numero di morti in una piccola percentuale di pazienti trattata con olmesartan che già al basale presentava patologie coronariche suggerendo che bassi valori pressori (<120/70 mmHg) non sono raccomandati in pazienti diabetici con una già nota patologia coronarica. Molto interessante ed estremamente esauriente il Simposio dal titolo “Nuove evidenze nella gestione terapeutica dello scompenso cardiaco e della coronaropatia stabile” in cui sono intervenuti Luigi Tavazzi, Roberto Ferrari e Andrea Macchi del San Raffaele. Tutti hanno evidenziato il concetto del controllo della FC nei pazienti coronaropatici stabili e affetti da scompenso cardiaco. Purtroppo, i Registri nazionali ed internazionali sull’argomento hanno mostrato che più del 50% dei pazienti affetti da scompenso cardiaco hanno una FC basale superiore a 70 bpm, nonostante il miglioramento terapeutico ed una maggior sensibilizzazione alla somministrazione dei beta bloccanti. Tuttavia, come ben detto dal prof. Tavazzi, spesso i beta bloccanti non sono titolati fino alle dosi target raccomandate dalle Linee Guida. Da questo punto di vista l’ivabradina potrà dare una mano, almeno nel controllo di questo importante e “nuovo” target terapeutico. Tuttavia, la presenza di ivabradina non deve essere una scusa per sottotitolare il beta bloccante, i cui benefici in questo setting di pazienti sono indiscutibili. Ferrari ha concluso dicendo che non esiste futuro per ivabradina che non poggi sulla perseveranza dei Medici a prescrivere e titolare massimamente il beta bloccante anche perchè solo il beta bloccante può preservare la fibrocellula muscolare cardiaca dall’insulto catecolaminico. Durante il 71° Congresso SIC si è affrontato anche l’annoso problema del paziente diabetico con coronaropatia ostruttiva multivasale e si è cercato di dare una risposta al dubbio a cui spesso si trovano di fronte i Cardiologi: come trattare questi pazienti? Meglio un’angioplastica percutanea o un approccio cardiochirurgico (CCH)? A questa difficile domanda ha cercato di dare una risposta Giuseppe Tarantini che ha richiamato i principali studi che si sono occupati di questo problema. In origine c’è stata l’angioplastica con il semplice palloncino (POBA) e dal confronto tra le due tecniche fatto nello studio BARI (Bypass Angioplasty Revascularization Investigation), la tecnica di CCH ne usciva sicuramente vincente. È, poi, arrivato lo stent metallico; dallo studio MASS-II (Medicine, Angioplasty, or Surgery Study) è emersa una mortalità simile tra le due tecniche anche se la tecnica di CCH è risultata sicuramente vincente in termini di necessità di una nuova rivascolarizzazione. Con l’arrivo dello stent medicato di I generazione le cose sono decisamente cambiate, perché questo nuovo prodotto ha portato ad un netto decremento di restenosi rispetto al suo predecessore; gli studi ARTS I e II (Arterial Revascularization Therapy Study) hanno, infatti, evidenziato una sicurezza dello stent medicato paragonabile alla tecnica di CCH anche se la percentuale di eventi cardiovascolari maggiori è risultata superiore rispetto alla tecnica di CCH. Lo studio SYNTAX (TAXUS Drug-Eluting Stent Versus Coronary Artery Bypass Surgery), infine, ha dimostrato una pari sicurezza delle due tecniche, una maggiore necessità di rivascolarizzazione con lo stent, ma una maggiore incidenza di ictus pre e post-operatori nei pazienti trattati con CCH.  Che fare quindi? Il Professore ha suggerito di tentare un approccio non tanto basato sulla tecnica, quanto sulle caratteristiche del singolo paziente: per un paziente con coronaropatia bivasale possono essere appropriate entrambe le tecniche, per i pazienti con coronaropatia trivasale, o con un SINTAX score superiore a 33, invece, è meglio una tecnica di CCH, per il maggior rischio di morte che si può avere con una tecnica di riperfusione percutanea. La prevenzione secondaria è un altro elemento fondamentale nella gestione a lungo termine di una sindrome coronarica acuta NSTEMI nel paziente diabetico. Le ultime linee guida europee, presentate durante il Congresso SIC 2010, affermano che, nel paziente diabetico, la strategia invasiva (angioplastica o by pass) è sicuramente da preferire rispetto a quella conservativa. Il paziente diabetico, infatti, ha una maggiore tendenza trombogenica dovuta ad un alterato equilibrio fibrinolitico e ad un’alterazione dell’attivazione piastrinica. Superata la fase acuta, le linee guida raccomandano, prima di tutto, una correzione dello stile di vita con un’interruzione del fumo, con delle scelte alimentari più adeguate ed un incremento dell’attività fisica. L’efficacia di tale strategia è stata confermata dallo studio GOSPEL (GlObal Secondary Prevention strategiEs to Limit event recurrence after myocardial infarction) che ha confermato che le modifiche dello stile di vita migliorano la sopravvivenza nei pazienti post-infartuati. Oltre a questo, però, bisogna intraprendere una terapia medica efficace: il paziente diabetico, infatti, ha, rispetto a un non diabetico, una mortalità doppia sia a 30 giorni dall’evento acuto che dopo un anno e ciò lo porta ad avere un rischio pari a quello di un soggetto non diabetico che ha avuto un infarto STEMI. Proprio per la maggiore tendenza trombogenica del diabetico, infatti, farmaci come il clopidogrel sono meno efficaci esponendo il paziente ad un maggior rischio di complicanze. Il Prof. Barbato, che ha tenuto questa sessione dedicata al trattamento della sindrome coronarica acuta NSTEMI nel paziente diabetico, ha indicato che, piuttosto che aumentare la dose di clopidogrel, è più indicato utilizzare farmaci che agiscono su diversi meccanismi come gli inibitori del recettore IIb/IIIa o il prasugrel che, rispetto a clopidogrel, ha avuto una maggiore efficacia nel diabetico senza dare una maggiore incidenza di eventi emorragici. Il farmaco che, però, si è mostrato più efficace, è bivalirudina, che ha dimostrato di dare una maggiore riduzione di eventi ischemici a fronte di un minore numero di sanguinamenti. È stata ribadita, inoltre, l’importanza di introdurre il più precocemente possibile una terapia con statina. Bel Simposio, nell’ultima giornata del Congresso, su un tema spesso dimenticato ma scottante, quello degli STEMI non riperfusi. Inizia il Prof. Pizzi, dell’Università di Bologna, che ha inquadrato e quantificato molto bene il problema. I pazienti che, nonostante siano colpiti da infarto miocardico con ST sopraslivellato, non ricevono alcun tipo di rivascolarizzazione oscillano tra il 16 e il 30% ed i motivi di ciò sono da ricercarsi o nei ritardi nell’accesso in PS e, quindi, un ritardo diagnostico oltre le canoniche 12 ore, oppure per la presenza di copatologia che ne precludono qualsiasi tentativo di rivascolarizzazione (anche se, come più volte sottolineato dal Prof. Pizzi, la maggior parte di tali controindicazioni sono di fatto relative). Tra queste, l’età avanzata, il sesso femminile, il rischio di sanguinamento sono tutti fattori predittivi importanti per il mancato tentativo di rivascolarizzazione. La seconda relazione, ad opera del Dott. Ottani, ha riguardato l’analisi del trial OAT (Occluded Artery Trial), che insieme al TOSCA-2 (Total Occlusion Study of Canada), rappresentano forse gli unici trial di grandi dimensioni sull’argomento. Le principali conclusioni sono state le seguenti: in pazienti clinicamente stabili con occlusione coronarica completa ed infarto avvenuto da 3 a 28 giorni, la strategia sistematica della PCI e stent è efficace nell’ottenere la pervietà immediata e a distanza del vaso, inefficace a ridurre, nel follow up a 4 anni, il rischio combinato di morte, reIMA e scompenso NYHA IV. È associata ad un trend sfavorevole di reinfarto, inefficace nel migliorare la FE a 12 mesi ed, infine, è risultata efficace nel limitare la progressiva dilatazione ventricolare sinistra. Freddy Galassi, dell’Università di Catania, ha affrontato il tema della diagnostica invasiva, preceduta o meno dalla non invasiva, nel decision making di questi pazienti. Il Prof. Galassi ha sottolineato il valore della RM cardiaca nell’identificare l’area a rischio e nella quantificazione di miocardio necrotico (anche a livello del solo sotto-endocardio). Ha chiuso il simposio Fabio Zacà che ha dato, come sempre, una impostazione molto clinica e pratica del problema, sottolineando l’importanza della valutazione clinica del paziente e le conseguenti implicazioni cliniche, la necessità di intraprendere un trattamento comunque aggressivo, sia cardioprotettivo (mediante beta bloccanti ed ACE inibitori), sottolineando il ruolo fondamentale delle statine ad alto dosaggio e dell’antiaggregazione. Nella gestione in acuto del paziente, inoltre, in particolare per quanto riguarda il paziente ad elevato rischio di sanguinamento, l’uso della bivalirudina ha dimostrato superiorità per quanto riguarda l’incidenza dei sanguinamenti con uguale o superiore efficacia anticoagulante rispetto ai trattamenti standard. Finale col botto in un bellissimo simposio sull’antiaggregazione, con la sala gremita di persone. I relatori, tutti nomi eccellenti (Margonato, Colombo, Zacà e Di Mario), hanno affrontato temi scottanti della terapia antiaggregante, dal ruolo dei test di antiaggregazione, alla durata della stessa dopo impianto di stent medicato e non, affrontando i possibili meccanismi della trombosi tardiva e molto tardiva, alle interazioni farmacologiche (in particolare con i PPI) ed infine alla gestione della terapia nel perioperatorio. I test di aggregometria, anche se non ancora completamente validati nel follow up del paziente, forniscono informazioni utili ed importanti nella gestione della terapia antiaggregante. Un esempio, in un paziente con test indicante una riduzione della efficacia del clopidogrel, appare abbastanza inutile raddoppiarne la dose, ma piuttosto, appare una strategia migliore cambiare il farmaco con agenti antiaggreganti alternativi (prasugrel). Altro punto di estremo interesse è stato il sottolineare che la trombosi intrastent può avvenire anche in pazienti perfettamente responsivi alla terapia antiaggregante e che quindi i meccanismi sottostanti tale fenomeno sono molteplici e necessitano dell’ottimizzazione anche di altre terapie preventive come, per esempio, le statine. Purtroppo, ancora poco si sa sulla durata ideale della terapia antiaggregante post posizionamento di stent. Attualmente i 12 mesi post posizionamento di un DES appaiono essere il miglior compromesso, anche se gli studi in corso chiariranno meglio modi e durata nella gestione di questi pazienti. Interessante anche la relazione sulla interazione clopidogrel-PPI, ad opera del Dott. Zacà, molto puntuale e pratica. Si è stressato molto il concetto di stratificazione del rischio di sanguinamento gastrointestinale per l’impiego concomitante di PPI nei pazienti che devono eseguire doppia terapia antiaggregante, lasciando questa associazione solo nei pazienti ad elevato rischio (pregressa/recente ulcera peptica, età avanzata, uso concomitante di corticosteroidi o FANS o anticoagulanti orali). Quasi al termine della sua relazione, ha sottolineato che il 6 dicembre ticagrelor è stato approvato dall’EMA per l’uso nelle SCA. Importantissima questa notizia, che ci fornirà presto una ulteriore, valida alternativa nel trattamento dei pazienti colpiti da SCA e posizionamento di stent.

Nino Lo Pacio

 
GENNARINO BORRELLO
Era un pò di tempo che non comparivano novità sul tratatmento della cardiopatia ischemica.
inserito il: 05-03-2011 08:50
 
 
ERRICO ESPOSITO
a mio parere il discorso sull'utilizzo degli antiaggreganti post pci-s avrebbe bisogno di maggior spazio e sperimentazione !
inserito il: 05-03-2011 12:01
 
 
FILIPPO DELRIO
articolo molto interessante, soprattutto per le novita' bivalirudina e poi speriamo nel ticagrelor
inserito il: 05-03-2011 12:47
 
 
GIUSEPPE LA ROCCA
non sono stato alla SIC, ho gradito molto questo report sintetico.
inserito il: 06-03-2011 17:51