SGLT2-inibitori: efficaci dopo un infarto miocardico?
Fonte: ACC Congress 2024.

Lo studio EMPACT-MI ha mostrato che la terapia con il farmaco SGLT2-inibitore empagliflozin non determina una riduzione significativa di un endpoint primario (ospedalizzazioni per scompenso o morte per ogni causa dopo un infarto miocardico), nonostante una riduzione del 25-30% del rischio di ospedalizzazione per scompenso. Lo studio ha arruolato 6522 pazienti con infarto miocardico in 451 centri in 22 Paesi. I partecipanti allo studio non avevano una storia di scompenso cardiaco ma almeno un fattore di rischio per scompenso in aggiunta a una frazione d’eiezione <45% e/o segni o sintomi di congestione richiedenti un trattamento. L’età media era pari a 64 anni; le donne costituivano un quarto della popolazione e i pazienti con diabete mellito tipo 2 il 32%. I pazienti sono stati arruolati entro 14 giorni dall’infarto e randomizzati a empagliflozin 10 mg o placebo. La durata mediana del follow-up è stata pari a 18 mesi circa. L’endpoint primario è stato riscontrato nell’8,2% dei pazienti in empagliflozin e nel 9,1% di quelli in placebo, con una differenza non statisticamente significativa. Analogamente non sono state riscontrate differenze nelle percentuali di morti per ogni causa (5,2% contro 5,5%). L’empagliflozin si è dimostrato più efficace del placebo relativamente a tutti gli endpoint secondari relativi allo scompenso cardiaco. Ad esempio, i pazienti in empagliflozin avevano un tasso di prima ospedalizzazione per scompenso del 23% inferiore e un tasso di ospedalizzazioni per scompenso (comprese ospedalizzazioni ricorrenti) del 33% inferiore. In aggiunta, il rischio di morte per scompenso oppure ospedalizzazioni per scompenso (prima ospedalizzazione e ospedalizzazioni ricorrenti) era del 31% inferiore. Tra i pazienti che non erano in terapia per lo scompenso alla dimissione dopo l’infarto, i pazienti in empagliflozin avevano una probabilità significativamente inferiore di iniziare tali terapie nei 6 mesi successivi rispetto ai pazienti in placebo. Questi dati sono in accordo, in termini di direzione ed entità dell’effetto, con quelli ottenuti in pazienti con diabete e malattia renale cronica. Alcune limitazioni dello studio vanno riconosciute, ad esempio la mancanza di un comitato centrale che verificasse l’attribuzione degli eventi, l’inclusione dei casi di morte non cardiovascolare nell’endpoint primario (sebbene non fosse probabile che l’empagliflozin avesse un effetto sulla mortalità non cardiovascolare) e un follow-up forse troppo corto per valutare la mortalità per scompenso.

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